Più di duecento racconti proprio non me li aspettavo. Qualcuno (non troppi) fuori tema, o meglio, senza i tre indizi proposti ma la maggior parte di voi è stata al gioco e alla grande. Ho scelto questo racconto perché il protagonista mi ha incuriosita e vorrei tanto sapere che fine farà oltre pagina tre… Il titolo è Una frittella a East Harlem e l’autore è Giuseppe Floris (grazie per aver partecipato!).
Buona lettura!
Giravo per il quartiere alla ricerca di una frittella da gustare in un locale sconosciuto, che avrei scelto scartando tra quelli dove il muro esterno puzzava di piscio e la lavagnetta riportava slogan farlocchi. Avevo camminato tanto che mi parve di essere arrivato alla fine del mondo perdendo di vista non solo la strada ma soprattutto l’obiettivo principale. Mangiare un dolce al sapore di santa pace in un posto dove persino Dio si sarebbe rifiutato di spezzare il pane – tra l’altro – con un povero diavolo come me. Il pensiero mi fece stare incredibilmente bene. Avrei consumato una frittella libero da tutti. Dio compreso.
Quando sollevai la testa verso il cielo, dopo aver chiesto perdono all’Altissimo per averlo nominato invano, m’imbattei in una sfilza di negozi di parrucche, di tutti i colori, appese con dei ganci improvvisati dietro vetrine sporche di polvere e pidocchi. Pensai di comprarne una per travestirmi agli occhi di Dio (e levargli il peso di dovermi perdonare) ma poi decisi che sarebbe stato divertente impressionare la folla. Il fatto che non ci fosse nessuno in strada mi parve l’ennesimo segno, come la faccia di gesso di una vecchia Madonna di colore che mi scrutava senza sanguinare da dietro una finestra socchiusa, dalla quale proveniva puzza di stufato e di sogni andati a male. Spossato, mi guardai intorno alla ricerca del bar nel quale sostare a riflettere su quanto fosse difficile mangiare senza sensi di colpa.
Mi misi di nuovo in marcia, stavolta con le mani bene in vista, cosicché lassù capisse che non cercavo rogne e venivo in pace. Fu così che mi convinsi a seguire un grosso topo che certamente conosceva la retta via. Dopo tre blocchi, svoltato l’angolo a sinistra, mi parve di essere giunto a Bombay. Non che fossi mai stato a Bombay ma qualche anno prima lessi un centinaio di pagine di Shantaram, il numero giusto per riconoscere nel casino che avevo davanti, qualcosa di simile alla città tanto cara al protagonista. Camminare mi piaceva. Ero convinto che andare a zonzo mi aiutasse a capire meglio il flusso del mondo, anche se non m’importava nulla del 99 per cento delle persone che incrociavo per la strada. D’altronde, ero convinto che fosse un sentimento reciproco. Io e il topo proseguimmo per altri dieci blocchi, almeno fino a quando il profumo del cumino e le sopracciglia ad ali di gabbiano delle donne sparirono e fummo pervasi dal profumo delle empanadillas, cotte su piastre bruciate, da donnone sudate che trasportavano per la strada buste della spesa pesanti come il loro culo nero. Quattro tipi dalla faccia color marrone come rhum invecchiato giocavano a domino seduti davanti a un portone. Appena videro il ratto gli indicarono con un gesto dove andare. Probabilmente non ispiravo fiducia neppure ai giocatori di domino. La nutria si fermò davanti a un locale che non aveva la lavagnetta all’ingresso e non puzzava di piscio. Dalla porta-finestra socchiusa veniva fuori un buon profumo a me ignoto, pertanto entrai convinto e felice di poter finalmente fare colazione. Feci un paio di passi e mi fermai in silenzio. Nessuno mi accolse con un bel sorriso ma questo accadeva dal ’78. Mia madre, in preda alle contrazioni del parto, urlava a gambe aperte sul letto di un ospedale. L’infermiera le suggeriva di spingere. Io non mi feci attendere. Saltai fuori dal suo grembo affacciandomi velocemente al mondo perché già da allora speravo che mamma non soffrisse per colpa mia. Non si poteva dire che fossi un bel bambino. La maggior parte delle persone mente ai piccoli addirittura sin dal loro primo giorno di vita. “Che bel bambino!” esclamano con voci in falsetto e la faccia schiacciata sul vetro. Invece gli ospedali brulicano di neonati, che sono mostri nella stessa misura in cui le corsie sono calcate quotidianamente da centinaia di pantofole bianche obbligate a sopportare i chili di troppo di trasbordanti infermiere, così brutte da incrementare la mortalità della popolazione degente. Avevo solo qualche secondo di vita – atarassico fin dall’inizio – quando quell’infame mi diede uno sculaccione senza che nessuno le chiedesse di farlo.
Fermo all’ingresso mi misi a osservare il locale. Era poco illuminato. Un vecchio jukebox diffondeva nell’ambiente la salsa e le pareti erano addobbate con due bandiere ingiallite di Porto Rico. Davanti, dall’altro lato rispetto alla porta d’ingresso, c’era un bancone di legno scuro, dietro il quale poco più in alto erano adagiate su alcune mensole gonfie di noia decine di bottiglie di liquore, intervallate di tanto in tanto da piccole statuette raffiguranti Santi, Gesù e Madonne che mi scrutavano con sospetto. La sala prevedeva una quindicina di tavoli, uno diverso dall’altro. Su molti di questi c’erano graffi e delle frasi incise che nemmeno la vernice ripassata più volte era riuscita a cancellare. M’inchinai leggermente a sinistra, abbassandomi per leggere cosa ci fosse scritto sul tavolo al mio fianco, tua sorella è di bocca buona. La questione non mi toccò. In fin dei conti non avevo sorelle.
In fondo, vicino all’ultima finestra, il tavolo era occupato dall’unico avventore presente in sala. Mi fissava già da qualche minuto così come si fissa un alieno dentro a un fast food o un pinguino zompettare a Coney Island e rideva. Rideva a bocca aperta, quasi senza denti, con gli unici due rimasti gialli e appuntiti. Era smilzo, indossava un cappello logoro, beveva rhum e ripeteva in continuazione, dondolandosi sulla sedia, una cantilena che finiva in “Madre de Dios”. Rideva a crepapelle. Una risata polmonare, di bronchi e di migliaia di sigari rollati a mano fumati fino all’ultima boccata, pregando ogni volta la Vergine che non fosse l’ultima.
Finalmente sentii alcuni rumori di stoviglie provenire dal retro. Probabilmente qualcuno si accorse della mia presenza. Intanto presi posto di fronte all’altra finestra non lontano dall’ingresso, pronto a scappare se il vecchio avesse avuto la divertente idea di lanciarmi il coltello dietro la schiena. Lo stomaco mi ricordò il motivo per il quale ero arrivato fino al “San Juan”. Avevo fame. Desideravo le mie frittelle calde e una tazza di caffè nero. Le persone non frequentano più i bar come una volta, riflettei. Non escono mai da sole e se lo fanno, proprio sull’uscio del locale, contano i soldi convincendosi che avrebbero fatto meglio a conservarli e non entrano più. Se sono sole si sentono a disagio. Preferiscono sprecare il loro tempo seduti al tavolo con persone che odiano, condendole con i racconti dei propri successi professionali e amorosi oppure – ancora peggio – rovesciandole addosso tutti i loro problemi, con le bollette, i vicini di casa o il cane che caga sciolta da tre giorni. Io invece preferisco stare per conto mio, in solitudine la maggior parte delle volte. Diffido di chi beve esclusivamente acqua perché “l’acqua si dà alle piante” diceva mia nonna e da chi non coltiva il suo vizio peggiore come qualcosa d’irrinunciabile per la propria sopravvivenza quotidiana. Mi convinsi che il tizio dietro di me fosse dello stesso avviso. “Dovrei pagargli da bere” pensai. Poi finalmente dal retro uscì una cameriera. Grassa come un burrito, con l’andatura ruspante come quella di un pollo, fasciata in un grembiule bianco con stampato in rosso “San Juan. Nuova Gestione.” Mi si avvicinò lentamente porgendo il menù. Dopodiché rientrò in cucina. Non proferì parola. Lanciai un’occhiata al vecchio che continuava a ripetere la sua litania e a ridermi alle spalle. Concentrato sul menù puntai dritto verso i dolci. Le due pagine plastificate erano colorate e organizzate in ordine alfabetico. La varietà dei cibi mi parve cosa buona e giusta. Cucina spagnola e soprattutto parecchie ricette della casa. Trovai le frittelle dolci e fui attratto anche dalla torta di San Juan. Lo stomaco brontolava già da due ore, avrei consumato tutto velocemente e sarei andato via senza perdere altro tempo.
La cameriera tornò serena come prima ma con un blocchetto di carta in mano. Mi fissò dritto negli occhi senza parlare. Capii che aspettava l’ordinazione. Le indicai con l’indice cosa avevo scelto. Chiesi inoltre una tazza grande di caffè nero.
“Ho trovato questo posto per caso” le dissi. Ci fu un attimo d’imbarazzo.
La cameriera raccolse il menù dal tavolo. Mi fissò ancora una volta in silenzio ma stavolta sorrise dolcemente. Aspettai il cibo osservando cosa proponeva la vita alla finestra. Il neon dell’insegna emetteva un ronzio che si percepiva anche all’interno e sembrava quasi andare a tempo con la luce rossa e blu a intermittenza. Una bambina si affacciò e rimase a fissarmi come se fossi il santo del quartiere. Dopo un minuto mi fece il segno della vittoria e scappò via. Dall’altra parte del marciapiede un tizio smilzo puliva la cunetta con il getto d’acqua di una pompa. Il cassonetto era colmo di rifiuti e scorsi il mio amico ratto che aveva già cominciato il pranzo tra le buste lerce.
Passarono circa quindici minuti. Non avevo nulla da leggere e non conoscevo le preghiere a memoria per far compagnia ai Santi sulle mensole. Li osservai però con attenzione. Uno era senza testa, un altro senza l’occhio. Un altro ancora trafitto nel costato, aveva lo sguardo perso verso l’infinito. I Santi avevano avuto vite più movimentate delle mie.
Arrivò la cameriera con un vassoio sul quale facevano bella mostra le frittelle, la torta e il caffè fumante. Addentai prima la torta, era eccezionale, squisita. Ancora calda ma friabile, ricoperta di panna con un retrogusto particolare che non sapevo riconoscere ma assolutamente delizioso. Afferrai anche una frittella, la spezzai in due e m’inebriai col profumo che emanava. Era dolce e morbida. Probabilmente aromatizzata alla cannella. Tiepida al punto giusto si scioglieva in bocca. Persino il caffè era diverso, pareva velluto, dello stesso colore del viso della donna che per un istante notai intenta ad osservarmi sorridente mentre con uno strofinaccio lucidava il bancone.
Ero felice. Quei dolci erano talmente buoni che mi tranquillizzarono. Mi sentivo a casa. Un grande appartamento abitato anche da portoricani che giocavano a domino e da quegli indiani color curcuma che avevo incrociato due ore prima. Finii soddisfatto lo spuntino e con un gesto della mano attirai l’attenzione della cameriera. Si era fatto tardi e dovevo riprendere il treno per Brooklyn.
“Era tutto buonissimo, signora. Credo di non aver mai mangiato dei dolci così.”
La cameriera ritirando il piatto prese la sedia e si sedette vicino a me e felice esclamò. “Sai, ragazzo, qual è l’ingrediente speciale?”
Aspettai che finisse la frase.
“L’amore.”
Abbassai lo sguardo imbarazzato.
“Ho aperto da pochi giorni. Sarei felice di rivederti. Magari la prossima volta porta pure un’amica.” La donna si alzò sfiorandomi la mano. Raccolse i soldi dal tavolo e sparì dietro il bancone.
New York – pensai con le lacrime agli occhi – non avrebbe potuto accogliermi meglio.
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