Frizzante, quest’anno, l’accoglienza del terzo classificato. E la cosa mi fa temere che il concorso si stia facendo serio, visto che non c’è premio letterario noto privo di critiche scoppiettanti…
Scherzi a parte, amo il contraddittorio e se vi sentite liberi di dire la vostra significa che BookBlister sta un pochino assomigliando a quello che vorrebbe essere. Perciò bene, continuate così.
Quindi, dopo aver indossato l’elmetto, annuncio al popolo tutto che il secondo posto del podio va al racconto dal titolo La macchia. Mi ha colpita per la sua atmosfera compassata e per il tema – la vecchiaia – trattato senza scivolare nello stereotipo. L’autrice si chiama Elena Cattaneo e la ringrazio per aver partecipato.
Quando Vera prepara il tè, di prima mattina, Benedetta se ne sta a poltrire sotto le coperte ancora un po’. Sente il rumore del bollitore che fischia e le tazze che sbattono. Il flusso d’acqua del lavandino le ricorda che sua sorella sta lavando un paio di mele; se le arriva lo sfregare del coltello sull’asse è la volta dell’arancia. Una volta mangiavano pane e burro salato ma, a settant’anni, stanno attente alla dieta.
La radio si accende e parte la rassegna stampa; Benedetta scosta le coperte. Un piede tocca terra, le duole leggermente. Lo guarda, è rosso, con le grosse vene che sporgono tortuose. Fuori dalla finestra la prima nebbia dell’autunno è una coltre sottile fra i palazzi stinti del quartiere.
Benedetta entra in sala da pranzo, seguendo il profumo di agrumi dalla cucina e vede Vera ferma in mezzo alla stanza. La donna sta guardando il soffitto e, appena la sente, alza il braccio e punta l’indice:
“C’è una macchia”, dice.
“Fammi vedere” Benedetta cerca gli occhiali nella tasca della vestaglia. “È vero, eccola lì. Ed è piuttosto estesa.”
Nei giorni successivi Vera passa sotto la macchia di umidità più volte al giorno e sembra preoccupata. Un pomeriggio, mentre sono in visita da amici, ha un leggero attacco d’ansia. Comincia a fremere sulla poltrona, il cioccolatino che sta masticando le va di traverso. Quando i padroni di casa chiedono se si senta bene, tira per la manica il maglione della sorella: “Dobbiamo rientrare”, sussurra.
“Stai male, Vera?”
“Dobbiamo tornare a casa. Si sta allargando.”
“Scusateci un momento. Di che cosa parli?”
“La macchia sul soffitto, credo si stia allargando.”
Non si è allargata ma ha cambiato forma. Le due donne, con ancora i cappotti addosso, osservano il soffitto, in silenzio.
“Lo vedi?”, sbotta Vera. “Non è la stessa forma di prima.”
Benedetta si leva il soprabito e lo getta sul divano. Inforca gli occhiali, spinge via la sorella e si concentra. “Non vedo niente di diverso.”
“È completamente un’altra forma. Sembra una donna, un mezzo busto che abbraccia un neonato.”
Benedetta cammina nella stanza torcendosi le mani. “Vado su, da Bordone, a dare una controllata. Se ci sono delle perdite in casa sua, siamo nei guai. Saranno spese. Bisogna vedere bene di che si tratta.”
Eugenio Bordone ha portato la moglie alla pazzia, questo pensa Benedetta mentre sale le scale che la conducono di fronte alla sua porta. Una pazzia felice che permetteva alla donna di parlare per metafore e farsi capire mischiando le lingue, usando i numeri per misurare il livello del proprio umore, emettendo suoni ricchi di emozione. Quando aveva mal di testa urlava che il pavimento era inclinato e si aggrappava a qualcuno. Sapeva ancora suonare il pianoforte, quattro pezzi in tutto, e li ripeteva per ore. Lui non perdeva mai la pazienza. Perché finalmente poteva amare sua moglie, sempre troppo cupa prima di questa crudele, allegra, straripante follia.
Poi la donna è morta e lui è rimasto solo, pensa fra sé e sé Benedetta.
Il figlio viene a trovarlo una volta per stagione. Commentano il tempo, hanno pochi ricordi da scambiarsi. Il giovane si tiene lontano da questa casa, a cui è legato da una specie di lunga catena: si sente un cane libero di spingersi nel mondo, lontano ma non troppo.
Benedetta fa un sospiro mentre la porta di Bordone si apre. L’uomo è in vestaglia, con la lente da lettura attaccata come un cappio al contrario. Buongiorno dice lei, mentre ripensa alla sua faccia grinzosa durante l’ultima riunione di condominio. Urlava parole a mucchi. Ora sembra mite, anche se ha il viso corrucciato.
“C’è una macchia sul nostro soffitto, è comparsa due giorni fa. Mi chiedo se non ci sia qualche perdita in casa sua. Vorrei mostrarle il punto preciso”, dice Benedetta quando l’uomo la fa entrare.
Bordone è già seccato e sbuffa. Sul tavolino, accanto al divano, una pila di libri nasconde un paio di tazze di tè vecchio di giorni, un’altra tazza fumante è sul tavolo al centro della stanza. La casa è calda e profuma di essenza di pino, dopo un po’ l’odore diventa pungente e Benedetta si strofina il naso.
“Come vede, qui non c’è niente”, fa Bordone e dà un’occhiata alla porta.
“Il vostro riscaldamento…”
“Non passano tubi da questo pavimento, signora.”
Benedetta stringe un pugno con l’aria di chi non sa più che fare. “Va bene. Ci arrangeremo”, riesce a dire.
Bordone annuisce. Poi, come se quest’espressione, ci arrangeremo, lo avesse risvegliato, le sorride. “Mi deve scusare. Ho avuto una brutta telefonata con mio figlio. Lo aspettavo domani, ma ha deciso di non venire e io sono molto dispiaciuto. A dire la verità sono contrariato.”
“Quanti anni ha suo figlio?”, chiede Benedetta girando lentamente il cucchiaino nel tè scuro. Bordone ha spostato la pila di libri e le tazze sporche e si sono seduti sul divano. “Venticinque. È nato quando noi ne avevamo quaranta. Fa il programmatore. Ha una stanza in affitto con altri amici. Non so molto altro di lui, penso sia una brava persona. È strano chiamare il proprio figlio persona. Lei non ha figli, vero?”
“No, né io né mia sorella. Vera non si è mai sposata, io sì invece. Avevamo tre cani; quando sono morti ho divorziato. Mio marito era talmente arrabbiato che ha cercato di togliermi tutto. Non ci è riuscito e io non gli più rivolto la parola. Io e Vera abbiamo deciso di vivere insieme. Siamo gemelle.” Benedetta prende un lungo sorso di tè, ha parlato con un tono troppo alto e la gola le si è seccata. Ora respira come dopo una nuotata. “Siamo diverse. Vera è più…”
“Inquieta.”
“Come ha detto?”
Bordone la guarda. Tocca la sua tazza con una mano, accarezzando la superficie liscia. Sorride con un leggero imbarazzo.
Quando rientra in casa, Vera è dove l’aveva lasciata. Al centro della sala da pranzo, sotto la macchia.
“Sei stata lì tutto questo tempo?”
“No. Mi ci sono appena rimessa.”
“Non ti fa male il collo in questa posizione?”
“Voglio vedere.”
“Chiameremo l’idraulico. A casa di Bordone non ci sono perdite. Magari è una reazione chimica della pittura. Forse c’è sempre stata e non ce ne siamo accorte.”
“Non c’è mai stata. E adesso voglio proprio vedere se cambia di nuovo.”
Di notte un gocciolio ritmato, quasi metallico, proveniente dalla sala da pranzo si insinua nel sonno delle gemelle.
Vera sogna di una barca che se ne va tranquilla nell’acqua viscida di un fiume. Poi qualcosa la prende per i capelli e lei apre gli occhi. Non fa in tempo a riconoscere le sagome dei mobili che il rumore dalla sala da pranzo si è già preso tutta la sua attenzione. “È come entrare in un sogno diverso”, pensa Vera e si avvia nell’altra stanza.
Benedetta è nel cortile dietro la stazione negli anni della sua infanzia, col vecchio lavandino che d’inverno si riempiva di ghiaccio fino a esplodere. Si aggrappa alle immagini prima di avere un sussulto e tossire. Avverte una specie di nostalgia e di freddo ai piedi magri. Ascolta questo gocciare per un minuto, prima di rendersi conto che Vera si è alzata.
Il rumore smette.
Benedetta esce dal letto, non fa caso al leggero capogiro che la fretta le provoca; accende le luci del corridoio e della sala da pranzo. E la vede. Sua sorella ha la bocca spalancata come una statua scolpita, il collo sembra più lungo e liscio del normale. Nella bocca cadono delle gocce pesanti che vengono dalla macchia sul soffitto.
Vera trasale, un po’ d’acqua le finisce di traverso, tossisce. Benedetta, che finalmente riesce a guardarla in viso, manda un urlo acuto, come un rapace notturno. Un rumore che pensa di non aver mai udito.
La fronte che di solito sembra una carta grinzosa e pronta a venir via, è liscia, leggermente striata da tre piccoli solchi che la percorrono da una tempia all’altra. Ha una bellissima fronte spaziosa che sovrasta gli occhi, grandi, chiari nei toni del grigio con delle piccole pupille affondate nell’iride. Gli zigomi si alzano a ogni sorriso, lievitano come un dolce nel forno.
Che bocca sottile, vorrebbe dire Benedetta mentre la testa comincia a girarle forte. Ce l’aveva anche da bambina. Ora le labbra sono com’erano quarant’anni fa: di un colore deciso e coi bordi perfetti, nessuna grinza; si vede solo il piccolo buco della varicella di tanti anni prima… Quanti anni, esattamente, ha adesso?
Benedetta guarda la sorella e cerca con una mano la parete, un appoggio. È come se un’onda di ricordi la travolgesse. È l’album di fotografie che si apre da solo, migliaia di immagini rovesciate sul pavimento. È il mondo a testa in giù, la vita che torna indietro, tutto quello che è stato sepolto e respinto. Eccolo lì, dentro di lei: uno scherzo del destino.
L’atmosfera è la stessa che c’è dopo un incidente. Chi è sopravvissuto, e sta bene, ringrazia il cielo; e la vita ricomincia a scorrere veloce, a grandi balzi. I feriti, invece, conoscono una paura nuova. Forse vedono la fine della vita.
Di fronte alla sua gemella ringiovanita di quarant’anni, Benedetta si sente a un passo dalla morte.
Vera ha conservato i ricordi di settant’anni di vita; solo il suo corpo è di nuovo giovane. Ripercorre tutto: gli eventi, le emozioni. È una memoria che galleggia fra impressioni appena nate e qualcosa che somiglia a un baratro, antico.
Le giornate si accorciano, l’autunno procede. Fa sempre più freddo.
Vera passeggia, da sola, di sera. Il buio arriva presto, si sente protetta e può camminare tranquilla. Ha molto tempo.
Le gocce hanno smesso di cadere. La macchia è sempre lì, a volte sembra allargarsi: un gigante, senza volto, tiene in braccio un bimbo in fasce.
Le due sorelle si parlano senza guardarsi negli occhi. Vera ha tolto lo specchio dal bagno. Sbircia il suo viso nel riflesso dei vetri delle finestre. Un esercizio straziante, che compie di nascosto, vergognandosi.
Benedetta fa la vita di sempre. Ai conoscenti ha detto che la sorella ha una brutta influenza. Scopre che non è difficile mentire. È solo una variazione su tema; e, se la vita non corrisponde in nulla a ciò che si vorrebbe, mentire è una salvezza.
Eugenio Bordone, appostato dietro la porta di casa sua, spalanca di colpo l’uscio non appena sente la voce delle due sorelle sul ballatoio del piano di sotto.
“Salve! Allora, come va con quella macchia? Non ho più saputo nulla.” Bordone intravede dietro Benedetta una donna che non ha mai conosciuto. “Scusatemi, pensavo foste voi due, lei e sua sorella.”
Benedetta prende Vera per un gomito. “È nostra nipote, è qui per qualche giorno. La macchia si sta riassorbendo… grazie.” Gli fa un cenno col capo e sparisce nell’appartamento tirandosi dietro la gemella.
Vera non dorme. Conta gocce immaginarie. Sente il respiro di sua sorella, gli spasmi della tosse notturna. Si sente fuori da un campo di prigionia. Leggera, spaesata. Completamente persa.
Benedetta si trova davanti Bordone, al ritorno dalla spesa.“Devo parlarle”, dice l’uomo, le mani gli tremano, tiene le palpebre leggermente abbassate.
Benedetta si fa severa e risponde: “Mi scusi, ho fretta”.
“È un invito”, la ferma Bordone. “A cena.”
“Prego?”
“Domani viene mio figlio. Non ci parliamo da mesi. Le chiedo un favore. Venga anche lei, mi farebbe piacere. E anche mio figlio sentirà meno il peso di noi due, da soli.”
“Non so cosa dire…”
“Dica di sì. E porti la sua amica. Voglio dire, sua nipote. Avrà pressappoco l’età di mio figlio. Vedrà, andrà bene.”
La cena è un luogo sospeso, Benedetta si chiede se stia accadendo davvero. Vera è comoda nei suoi trent’anni, lei e il figlio di Bordone si piacciono. Parlano di cucina, si toccano le mani per caso, aiutando a sparecchiare. Benedetta a un certo punto guarda l’ora e torna a casa. Dà un bacio alla sorella e sente la sua eccitazione, con stupore. Un moto brutale di pena le stringe lo stomaco. Guarda la cucina di Bordone e i due giovani, improvvisamente amici; si chiude la porta alle spalle con nausea e spavento.
Vera, nella macchina del figlio di Bordone, prova un sentimento di sorpresa, a metà fra un’emozione esplosiva e l’effetto di una ferita da arma da fuoco. Questa lingua leggera, dolce, calda, vagamente intrisa di sapore di caffè, sta ballando nella sua bocca un jazz scatenato. E lei non deve nemmeno preoccuparsi della dentiera.
È il momento più felice della sua vita.
Eugenio Bordone scoppia a ridere e mentre lo fa si rende conto che sono passati mesi dall’ultima volta che qualcosa gli ha strappato una risata così decisa.
“Lo ripeta.”
“È mia sorella.”
“Un’altra sorella, vorrà dire.”
“È Vera.”
“Ma come fa a…”
“È ringiovanita.”
Bordone pensa povera donna, povera Benedetta. Ma non dice niente. La fa parlare.
Tutte le consuetudini si invertono. Adesso, ogni mattina, Benedetta prepara la colazione a Vera, che dorme fino a tardi, come faceva da ragazza.
Un giorno Vera si affaccia alla porta della cucina in mutande e dice: “Tutte le cattive abitudini stanno tornando. Dormire troppo, per esempio”. Fa uno sbadiglio scomposto, rumoroso.
Benedetta le afferra una mano e le dice: “Mangiarti le unghie, anche”.
“Mi fai male”, protesta Vera.
“Ma non è il tuo vizio peggiore.” Lascia andare la mano della sorella come se lanciasse una pietra a terra.
Vera ciondola mormorando fra sé: “Che stronza”.
Benedetta si gira di scatto, la squadra attentamente. I peli vicino all’inguine spuntano da quel paio di vecchie mutandine lise, troppo grandi per questa donna di nuovo magra. L’interno delle cosce è chiarissimo e compatto. Non c’è traccia di cedimento, cellulite, niente. Benedetta si avvicina a Vera che fa un passo indietro. Le punta gli occhi addosso, ispeziona il collo, le braccia, i seni. Tutto è chiaro e perfetto. Vera fa per andare nell’altra stanza quando la sorella le urla:
“Fermati!”
Vera è immobile, sussurra: “Non mi piace se mi guardi così. Sembra che tu voglia farmi del male. E sarebbe stupido. Perché forse anche tu… anche tu potresti provare.”
“L’hai rifatto, vero? Infatti sembri, sei ancora più giovane. Ciondolavi così per casa a diciotto anni. Quando? Non mi sono accorta di nulla.”
“Ieri notte. Non ti sei svegliata. È stato un attimo, ero quasi sonnambula.”
“Te lo proibisco!”
“Ho fatto l’amore con quel ragazzo. Sulle scale, vicino alle cantine. L’abbiamo fatto in piedi e poi per terra. Volevo essere un po’ più giovane di lui. Adesso non so più nemmeno perché, devo aver pensato che lui fosse il mio unico contatto con la realtà; e volevo che mi sposasse.”
“Eccolo il tuo vizio peggiore…”
Vera cantilena: “Benedetta, tagliami i capelli. Vorrei la frangia”.
“Non sono capace, lo sai. E poi oggi sono stanca, sono molto stanca.”
“Forse hai l’influenza. Ti curo io. Va bene? Devi sederti e stare ferma per un po’.” Vera si torce una ciocca di capelli e si tormenta il labbro inferiore. “Pensavo, quando starai meglio… Ho bisogno di vestiti. Di qualcosa per la mia età. O di parlare con qualcuno. Andiamo da un medico. Insomma, io devo uscire. Iscrivimi all’università. Forse potrei fare di nuovo il corso da infermiera e ricominciare a lavorare.”
“Non lo so, forse”, risponde Benedetta e si abbandona sul divano, senza forze, senza nessuna idea.
Vera sbatte la porta della sua camera. Avrà dodici o tredici anni. Forse anche meno. Benedetta non sa come, ma è successo di nuovo. L’ha scoperta in giardino mentre rincorreva il gatto dei vicini. Ha rubato una palla a delle bambine del cortile. I genitori delle piccole le fanno delle domande: “La figlia di mia nipote”, risponde. La chiude a chiave nella stanza da letto, dopo avergliele suonate. È molto forte questa Vera di dodici anni. E Benedetta si sente sopraffatta. Il figlio di Bordone è venuto a cercarla. Benedetta gli ha detto che è partita.
Deciderà il da farsi con calma.
Si mette a dormire sul divano appena fa buio. Vera ha urlato per un’ora interminabile, e bussato e pianto, ma ora sembra essersi calmata.
Quando sente il rumore dell’acqua, Benedetta si alza e mette un catino in corrispondenza della macchia. Raccoglie le gocce. Vera anche deve essersi svegliata. “Che cosa fai?”, chiede dalla sua stanza. Benedetta non risponde. Aspetta. Quando ha raccolto una piccola quantità d’acqua, la dà da bere alle piante, aspettando di vedere un effetto. Non succede nulla.
Allora rimette il catino e, di nuovo, aspetta. Si raggomitola, secca e sfinita, sul divano. Dopo un po’ torna al catino, si avvicina piano, come se fosse un gatto. Con una smorfia di fatica si piega a carponi sull’acqua; apre la bocca, tira fuori la lingua e lecca. E a ogni sorso sente meno dolore e il sangue che circola diventa più caldo.
Si ferma e si guarda allo specchio. Ha il viso di sua madre poco prima che morisse; quarantacinque anni. Andranno bene, pensa. Torna sul divano cercando nella mente una mappa possibile, una cartina geografica vera e propria, un luogo sensato dove andare. Un posto nel mondo, dove depositare questo tempo stravolto e incredibile.
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