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Channel: Concorso Tramando – BookBlister
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Tramando: il vincitore

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Quest’anno mi sono proprio divertita!
E il merito va senza dubbio alla siora Gaia Conventi: indispensabile nel gestire al meglio torneo, contendenti e pure votanti tutti. E altrettanto preziosa perché mi ha aiutata a mettere a punto un sistema di voto più democratico. Adesso la smetto ché altrimenti sbuffa, già la vedo.
Grazie a tutti per aver partecipato, letto, commentato… e soprattutto votato. Più di 1300 “mi piace” che hanno decretato il seguente podio:
– al terzo posto, L’ultima al bar, con 109 voti, di Marco Maggioni.
– Al secondo,  Giallo denso, con 472 voti, di Grazia Lodigiani.
– E sul gradino più alto del podio, L’avamposto,  di Marco Baggi con ben 614 voti:.
Il vincitore si aggiudica una cassa di libri e un sonoro applauso. Di seguito, potrete leggere il suo racconto.

Prima di lasciarvi, però, vi avviso che no, non è finita qui. Tra poco arriva il nostro cucciolo, la nostra demoniaca creatura: il Tramiro. Perciò, voi che avete partecipato, tremate!

La foschia arrampicava lenta sulla collina, ghermita da un manto grigiastro che ogni giorno l’avvolgeva nel suo abbraccio. Il silenzio divenne con lei padrone del mondo, così assordante da invadere i cuori e le anime degli uomini in guerra. Anche l’avamposto in cima all’altura subì la stessa sorte, un minuscolo puntino disperso nel bel mezzo di quel mare di tranquillità.
«Questa maledetta nebbia mi ha davvero rotto!» sbottò Jean, seduto su una cassa di munizioni in legno, stretto nel proprio giaccone mimetico. Una densa nuvoletta di vapore ne celò il volto stanco, prima di svanire a pochi centimetri dal soffitto arrugginito. «Non ci lascia vedere nulla, i bastardi potrebbero essere a due metri e non ce ne accorgeremmo nemmeno!»
L’altro soldato rimase in piedi, silente, a osservare il mondo attraverso la feritoia di sacchi di sabbia.
«Grazie, mi hai davvero rassicurato» riprese Jean ad alta voce. «Metti sempre così a loro agio i novellini come me?»
«Ti ho già detto qual è il tuo problema, ragazzo» replicò il fante senza voltarsi. La sua voce profonda, priva di ogni emozione, impaurì il giovane. «Parli troppo. Ricordati che siamo in un avamposto, non in qualche bel salottino delle retrovie.»
«Lo so bene dove siamo!»
«E allora fa silenzio!» gli occhi chiari del veterano parvero fiammeggiare nella penombra. «Il nemico può sentirci. Hai così tanta voglia di tornartene a casa in una bara?»
Jean sbuffò platealmente. «Certo che no» ribatté. Da quando era stato inviato su quel pianeta, a combattere l’ennesima guerra imperiale, aveva visto soltanto nebbia. Un grigiore interminabile unito a turni di guardia altrettanto lunghi in quella specie di scatola maleodorante, poco più grande di una cabina telefonica e rimasta in piedi per chissà quale concessione divina. Il contrario di quanto si vedeva a casa, nei notiziari, colmi d’immagini su battaglie gloriose e avanzate formidabili a spese del nemico. «Ti rendi conto che non sparo un colpo dall’addestramento reclute?!»
«Augurati di non doverlo fare mai» lo ammonì il veterano. «Non è divertente come nei film o videogiochi.»
«Andiamo, Lance, a me puoi dirlo.»
Lance squadrò il novellino con un’occhiata torva. «Dire cosa?»
«Com’è la guerra» rispose Jean, speranzoso. «Com’è veramente. Tu l’hai vista, sei qui da molto più tempo di me.»
«Uno schifo, ecco com’è realmente» tagliò corto l’altro. Anche l’ultimo brandello d’entusiasmo venne spazzato via dall’animo di Jean, così come il suo sorriso. «Uno schifo che non t’immagini nemmeno.»
«Venendo qui ho sentito dire che sta per finire.»
«Certo, e le astronavi funzionano ad aria compressa!» sibilò Lance, perdendo il suo proverbiale autocontrollo. Arrivò a un palmo dal volto turbato del giovane. «Smettila di credere alle favole! Ma dove diavolo sei cresciuto per non capire che tutto questo non finirà mai? Finché qualcuno avrà da guadagnarci, manderanno sempre la povera fanteria al macello. È così dalla notte dei tempi!»
Jean sfogò la propria frustrazione sul fucile mitragliatore, in un’infinita litania di clicchettii metallici.
«E piantala, con questo baccano ti sentiranno perfino sulla Terra!»
«Piantala tu, invece!» replicò il novellino, sguardo truce dipinto sul viso imberbe. «Questi discorsi disfattisti non mi piacciono.»
«Non ti sarai mica offeso, per caso?» ridacchiò invece Lance, sempre divertito dinanzi alle disillusioni delle reclute. «Ora sai che non ci sono grandi battaglie, né gloria e onore per noi soldati» diede una rapida occhiata alla feritoia, mentre il suo tono di voce perdeva ostilità. «Questa guerra è fatta più che altro di scontri fra pattuglie, come si potrebbe avanzare su larga scala con una nebbia del genere? Non si vede a un palmo di naso, e il nemico ne approfitta per infiltrarsi nelle nostre linee. Per questo avamposti del genere sono così importanti.»
«Con la tecnologia che abbiamo ci lasciamo fermare dalla foschia?!»
«Foschia tu dici» replicò Lance con un amaro sorriso dipinto sulle labbra. «Non è come quella che conoscevamo sulla Terra, questa ha qualcosa di tenebroso. Qualcosa in grado di far scomparire intere compagnie di fanti o carri armati, di cui non si è saputo mai più nulla. Credimi, non ha niente di normale.»
«Mi dispiace, ma non credo a queste panzane da prima linea.»
Il veterano adocchiò il quadrante fosforescente del proprio orologio, ignorando il commento. «Mancano ancora due ore al termine del nostro turno di guardia, che ne dici di lasciare le riflessioni per dopo e rilassarti un po’?»
«Se mi rilasso ancora rischio di addormentarmi» sospirò Jean. «E mi toccherebbe sognare una bella sparatoria per dare un senso alla giornata.»
«Non riuscite proprio a capirlo voi giovani, vero?» Lance scosse il capo, arreso. «I momenti migliori di una guerra sono questi, dove si hanno un cielo sopra le testa, la pancia piena e l’unico vero pericolo è quello di annoiarsi.»
Jean appoggiò il fucile alla parete, rassegnato all’incedere della noia. Estrasse la borraccia e si versò un poco d’acqua nel bicchiere della gavetta, porgendolo infine a Lance. «Hai sete?»
La sua voce venne però sovrastata da un’immane esplosione, che scosse l’intero avamposto. Le lastre di metallo del soffitto stridettero e sembrarono sul punto di spezzarsi sotto l’impeto di quella violenza. Dai sacchi di sabbia penetrò una densa coltre giallastra, capace di ricoprire i due soldati crollati a terra in cerca di riparo. Altre esplosioni seguirono la prima, sempre più vicine e ora accompagnate dal fuoco di fucileria.
«Cazzo, ci sparano addosso!» gridò Jean, le mani premute sulle orecchie per non udire quell’inferno.
«Datti una calmata e stai basso!» gli intimò Lance, steso accanto al giovane. A perfetta antitesi della recluta, tornò a sfoggiare una calma disarmante, nonostante la gragnola di colpi che si abbatteva contro il piccolo avamposto. «Te l’avevo detto di startene zitto, sei contento ora?»
«Non starò qui a farmi ammazzare come un topo!» ribatté l’altro, alzandosi. «Dobbiamo rispondere al fuoco!» puntò il fucile mitragliatore alla feritoia, ma invece dei nemici scorse soltanto ombre indistinte, quasi fossero dei fantasmi partoriti dalla mente di un bambino. «Maledetti! Fatevi vedere!» svuotò un intero caricatore addosso al nulla, senza riuscire a fermare l’impeto del nemico. In risposta, nuove e devastanti deflagrazioni squassarono l’avamposto e le menti dei difensori, ormai sepolti dai sacchi di sabbia precipitati dalla struttura.
«Stai giù!» gli gridò dietro Lance. «Vuoi attirarci addosso l’intero esercito nemico?!»
Jean si mise seduto, tentando invano d’inserire un nuovo caricatore nel fucile. La paura lo aveva ormai conquistato, invischiandone anche il più semplice movimento. Occhi e bocca spalancati gli conferivano l’aria di un povero pazzo.
«Se non spariamo più, forse passeranno oltre l’avamposto» spiegò il veterano, stringendolo a sé con fare quasi paterno. «Non fare l’eroe!»
Un particolare catturò l’attenzione di Jean, che sembrò capace di ridestare almeno un poco il suo spirito di soldato. «La radio!» urlò in preda all’eccitazione. «Con la radio possiamo avvisare il comando e far arrivare rinforzi!» sfuggito alla stretta di Lance, balzò sulla trasmittente poggiata a pochi passi. Alzò il ricevitore, incurante dello sguardo di rimprovero lanciato dal compagno. «Tango due qui avamposto quattordici, mi ricevete?» dalla ricevente scaturirono in risposta soltanto scariche elettromagnetiche. «Tango due, mi ricevete?! Abbiamo bisogno di aiuto, siamo sotto attacco nemico!» le urla della recluta si persero in mezzo all’assordante fragore della battaglia. «Non funziona! Non funziona!» gemette infine disperato.
«Te l’ho spiegato prima perché» ribatté Lance col suo fare glaciale, figlio di una lunghissima esperienza al fronte. «Lo stesso per cui non siamo ancora riusciti a concludere questa guerra.»
A quelle parole, la fragile corazza emotiva di Jean andò completamente in pezzi. Dimentico di ogni avvertimento, schizzò addosso al portoncino d’ingresso dell’avamposto, colto dal panico più feroce. Avvertì di essere finito in trappola, già sepolto in quella specie di tomba e accompagnato dal lugubre canto degli spari. Cominciò a prendere a pugni il freddo battente in metallo, con l’unico risultato di ferirsi le nocche a sangue.
«Basta, non ne posso più!» gridò fuori di sé. «Non voglio fare la fine del topo! Aiuto!»
«Vuoi calmarti una buona volta?!» tuonò Lance, rialzatosi. Il soffitto basso lo costrinse a camminare curvo, ma riuscì comunque a raggiungere il giovane. «Ragazzo, riprendi il controllo!» disse ancora afferrandolo per le spalle. «Siamo al sicuro qui, i bastardi ci sparano addosso solo per spaventarci. Se volevano ammazzarci l’avrebbero già fatto!»
Jean non parve nemmeno udirlo. Crollato ai piedi del portoncino, iniziò a singhiozzare come un fanciullo, il capo nascosto fra le mani ferite. Il veterano sospirò, arreso di fronte a quella sconfitta morale. Andò a sedersi sullo sgabello improvvisato di Jean, cominciando ad armeggiare con l’interfono celato sotto l’elmetto.
«Sospendere il test!» ordinò perentorio. La sua voce, per quanto ferma, tradiva una certa delusione. Gli spari e le esplosioni cessarono alcuni istanti più tardi, insieme al tremore del terreno. «Potete venire a prenderlo, ora.»
Il giovane levò il capo in direzione del compagno, colpito dall’inaspettato silenzio che non credeva reale. La scarsa luce della feritoia risaltava la scia delle lacrime sulle gote arrossate. «Test?» ripeté sconvolto. «Che significa, Lance, e perché non sparano più?»
Lance si limitò a fissare la recluta con occhi colmi di tristezza. Ne aveva visti a decine crollare così sotto i propri occhi, eppure ogni volta quello spettacolo sapeva ferirgli il cuore e la mente. Quei pensieri d’angoscia vennero spezzati dallo spalancarsi del portoncino, che dissolse la penombra all’interno dell’avamposto. L’intensa luce esterna rivelò due figure vestite di bianco, ritte dinanzi al giovane. Alle loro spalle, non c’era più alcuna traccia della nebbia, né di nemici o crateri delle esplosioni, come se il combattimento appena concluso fosse stato semplicemente un brutto sogno. Persino la collina stessa spariva pochi metri oltre, inghiottita da strane apparecchiature elettroniche.
«Cosa sta succedendo, Lance?!» gemette Jean mentre i due uomini lo sollevavano di peso. «Ti prego, aiutami!»
Il veterano alzò lo sguardo dal pavimento, incrociando gli occhi sconvolti del giovane. «Stai tranquillo, ragazzo» disse piano.    «È tutto a posto, fra poco non ricorderai nulla.» Jean venne sedato e caricato su una barella motorizzata, diretto al centro medico per un nuovo lavaggio del cervello. Lance osservò la recluta allontanarsi, l’ennesima incapace di reggere allo stress della battaglia. Soltanto in pochi superavano infatti la selezione per diventare dei veri soldati, da impiegare nelle remote colonie dell’Impero. Agli esclusi veniva rimosso ogni ricordo della prova e imposto un nuovo addestramento, da concludere con la messinscena dell’avamposto. Come se si trovassero davvero su un remoto pianeta nemico avvolto dalla nebbia. Avanti così fino a ridurre le reclute a poveri relitti umani, che avrebbero forse vissuto il resto dei loro giorni nei manicomi. Proprio come Jean, ma ai comandanti questo non importava.
«Sta bene, dottore?» un terzo assistente fece capolino dalla feritoia mezza distrutta. Il suo sorriso cozzò violento con i sentimenti cupi di Lance.
«Ci avete dato una bella batosta questa volta» riuscì soltanto a commentare. «Bisognerà dare una sistemata, a momenti cadeva giù tutto.»
L’assistente ridacchiò divertito. «Il ragazzino era al terzo tentativo. Per me se l’è fatta sotto dalla paura.»
«Come se potesse saperlo» replicò Lance con asprezza. «Se ridi ancora una volta di un candidato ti farò arruolare. Sai che posso farlo, anche se al momento non siamo in guerra c’è sempre bisogno di nuovi soldati.»
«Mi scusi, dottore» concluse l’altro, il sorriso scomparso improvviso dalla bocca. «Le mando qualcuno per riattare l’avamposto e preparare un nuovo designato. Serve altro?»
Lance non rispose, assorto nei propri pensieri. Estrasse un piccolo taccuino da una tasca dei pantaloni, vi scrisse qualcosa nella tipica grafia illeggibile dei medici e lo rimise a posto. Infine lasciò il palco di quella farsa, sempre più disgustato dal suo ruolo di veterano sopravvissuto a mille battaglie inventate.
L’avamposto collassò alle sue spalle solo pochi istanti più tardi, in un turbinio di polvere e gemiti metallici che non lo impressionò nemmeno. Gli inservienti dello studio, allarmati dal frastuono, corsero come impazziti fino alla piccola struttura ormai in pezzi, sotto la quale giacevano attrezzature costosissime. Lance sospirò sollevato, perché sarebbe occorso diverso tempo per ricostruire l’avamposto e riprendere i test.
E così, del tutto inattesa, sulle labbra del dottore apparve la curva di un sorriso.

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